La morte oggi

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La morte, almeno nell’occidente sviluppato, è un tabù sconveniente, un ‘oggetto’ incompreso e inaccettato; non così altrove, in altre epoche e in altre culture – anche tra quelle che, paradossalmente, oggi vivono in occidente, in mezzo a noi.

L’uomo occidentale insomma sembra preferire di non sapere con la sua mente quello che la sua carne, in ogni caso, sa e non può ignorare. E la società occidentale, che forse più di altre, e mai con tale forza nella storia, sembra provare un gusto e una vocazione particolare nell’abbattere tutti i tabù, intorno alla morte ne ha eretto uno particolarmente solido e impenetrabile: anche perché, a differenza di altri, non c’è nessuno che voglia seriamente liberarsene.

La morte, crediamo, resterà ancora a lungo isolata, se non chiusa, in un universo misconoscente ed allusivo, perché tale lo vuole il modo odierno di pensare non la morte, ma la vita stessa, e persino quell’attacco alla vita che è la malattia, e di converso quel baluardo di essa che si pretende l’odierna medicina.

Per capire di cosa parliamo

Già lo diceva Agostino di Ippona: “Incerta omnia. Sola mors certa”.

Ma c’è di più: noi non ne ignoriamo solo ‘il giorno e l’ora, il perché e il come’ – ne ignoriamo anche l’essenza, e persino i confini. In pratica, non sappiamo davvero cosa sia, e tanto meno, quindi, come affrontarla. Dove inizia infatti la morte? e dove finisce veramente la vita? L’odierno dibattito bioetico, e la difficoltà di una definizione giuridica (ma anche religiosa) condivisa di vita e morte, è in fondo tutta qui.

La morte, comunque, sappiamo che c’è, che ci riguarda. Eppure, raramente accettiamo di considerare la morte come ‘naturale’. Psicologicamente, non è questo il nostro atteggiamento prevalente: la morte ci sorprende e ci stupisce, tanto è vero che, di fronte a una persona che muore, anche anziana, se non chiediamo propriamente “chi l’ha uccisa?”, ci chiediamo comunque “di cosa è morta?”, che è quasi la stessa cosa. Come se fosse impossibile e inaudito pensare che si possa morire, per l’appunto, di morte ‘naturale’: perché si è cessato di vivere, semplicemente – perché ‘era ora’.

Se sappiamo che la morte ‘accade’, le definizioni dell’istante ‘morte’, all’interno di quel più lungo processo che è il ‘morire’, sono rese difficili anche dalla stessa fisiologia: il corpo umano infatti continua a morire, e in un certo senso a vivere, anche ‘dopo’ aver emanato quello che si suole definire l’ultimo respiro. Il che spiega perché le definizioni della morte siano sempre più ‘scientificizzate’ e ‘giuridicizzate’. I progressi stessi della scienza rendono più precisa e insieme più difficile la definizione della morte.
Se una volta poteva bastare la constatazione dell’arresto del polso e del cuore, o la cessazione della respirazione, constatata magari con l’antico sistema dello specchietto posto davanti alla bocca del cadavere, e infine la mancanza di ricettività e di reazione a stimoli esterni, oggi le prove si fanno sempre più cumulative, e presuppongono l’ausilio di macchinari in grado di constatare, tra le altre cose, per lo meno un encefalogramma piatto senza interruzioni per un certo numero di ore.

Difficile dire, tuttavia, se anche la definizione della morte progredisca con il progresso nella misurazione delle funzioni vitali. Il dibattito bioetica sembrerebbe attestare il contrario. E poiché, in ultima istanza, la legge è frutto di contrattazioni tra ideologie religiose e laiche o almeno visioni contrapposte, e gruppi di potere che le portano avanti, la conseguenza è che è morte ciò che i gruppi di potere dominanti o coalizzati decidono che sia.

Morire: come? Perché?

Due domande diverse, due risposte diverse. Alla prima domanda può forse tentare di rispondere la scienza. Ma per trovare una risposta alla seconda, la scienza non basta. L’esigenza di sapere non può accontentarsi di una risposta ‘tecnica’. “La morte è un giallo in cui bisogna trovare il colpevole”, è la mentalità diffusa nella classe medica. Ma al malato spesso interessa più il ‘senso’ della sua morte che la sua ‘causa’, più o meno oggettiva od oggettivabile.
La statistica può dirci tuttavia le cause di morte più diffuse, aiutando una risposta che può illuminare altri piani. In Italia ci sono oltre mezzo milione di morti l’anno. La cifra assoluta dice poco, ovviamente. Più significativa la conferma della tendenza all’allungamento della vita media e la sua differenziazione per sesso, rispettivamente 75 anni per gli uomini e 81 per le donne, secondo una tendenza ormai attestata (in Europa – non così tuttora in molte aree del Terzo Mondo – almeno dal Rinascimento in avanti) – praticamente un guadagno di 25-30 anni in meno di un secolo.
Oggi oltre il 60% dei morti sono ultrasessantenni – si muore dunque sempre più tardi. E ovviamente, essendo le morti concentrate in fasce d’età in cui le donne sono maggioritarie, significa anche che a morire a questa età sono sempre più spesso donne sole, comunque prive di coniuge, con i problemi sociali connessi, economici, ma anche di sostegno, che si possono intuire.
Dagli anni Ottanta è invece in controtendenza, rispetto alle dinamiche generali, la mortalità relativa alla fascia cosiddetta dei giovani-adulti, tra i 25 e i 44 anni. Qui infatti la mortalità è in aumento per gli uomini e stabile per le donne, in diretto legame con alcune patologie recenti, in particolare l’Aids, ma anche, per gli uomini, incidenti stradali e di altro genere, suicidi, cirrosi epatica, overdose. Cifre che la dicono lunga non solo sulla sparizione, ovvia dato l’elevamento della speranza di vita, della mortalità cosiddetta naturale in questa fascia d’età, ma anche su quella che finisce per essere la percezione sociale della morte come ‘innaturale’, come incidente, come evento eccezionale e drammatico nelle sue modalità. Cifre, anche, che dicono molto sugli stili di vita e, per così dire, sugli ‘stili di morte’: probabilmente considerabile, alla luce di questi dati, un evento più ‘scelto’ di quanto siamo abituati a pensare. Le donne infatti, in questa stessa fascia d’età muoiono la metà degli uomini. E’ quindi possibile dire, contrariamente alla percezione comune della morte come una cosa che ‘càpita’, un mero accidente, che le donne di quest’età scelgono di morire in maniera significativamente diversa dagli uomini, e soprattutto molto meno.
Più in generale, come considerazione che trascende il caso italiano e riguarda tutto il mondo economicamente più sviluppato, occidentale in particolare, possiamo dire che la morte è sempre più posposta nel tempo, che la corsa contro il tempo, intrapresa dalla scienza medica, in nome e per conto di tutta la società, sta mostrando i suoi successi.

La rimozione della morte

Un esito perverso di questa battaglia è che ci siamo accomodati a questa paradossale finzione sociale: che la morte non esiste. E che, se anche sospettiamo che esista, in ogni caso non dobbiamo parlarne. Meno che mai con il morente. E ancora meno con i bambini. La società dell’informazione e della conoscenza ha scelto in questo caso, volontariamente, l’ignoranza, il nascondimento, il silenzio.

Der Mensch ist zum Tode (Heidegger). L’uomo è la sua morte, se la porta dietro dalla nascita, comincia a morire dal giorno in cui nasce, come ci insegna la filosofia, da Epicuro, con il suo noto ‘sofisma dell’inesistenza della morte’, in avanti, passando per gli stoici latini fino all’esistenzialismo. Ma questa constatazione, lungi dal divenire consapevolezza individuale, rischia di essere soltanto una fredda frase. L’approccio intellettuale alla morte non è il più profondo. Il solo approccio profondo è quello radicato nei sentimenti: la morte di qualcuno che conosciamo, che amiamo. E’ questa la sola morte che ci interroga personalmente, sulla nostra morte, e magari anche sul senso che diamo alla nostra vita. Anche se la società può cullarsi nella tranquillità illusoria del nascondimento, l’individuo, solo, i conti con l’’estrema nemica’ li deve fare. Perché non conosciamo né il giorno né l’ora: mors certa, hora incerta.

Il nascondimento, la rimozione della morte, appare quindi dannosa per l’individuo proprio perché gli toglie le occasioni e dunque le possibilità di entrare in contatto con quello che sarà anche il proprio futuro, e dunque di fare i conti: con se stesso, i propri sentimenti, la propria famiglia, il proprio lavoro, in definitiva il senso della vita di ciascuno. Una celebre iconografia del memento mori che ci viene dal Medio Evo è per l’appunto quella dei morti che dicono ai passanti: “ciò che siete lo fummo. Ciò che siamo lo diverrete”. Li avvisano, in sostanza. Per l’uomo moderno, che vive nell’illusione che la morte non esista, e che in ogni caso non la incontra più, “la morte – come dice Scheler – sopraggiunge soltanto come catastrofe”. Qualcosa di insensato e di alieno: che non si capisce, e che ci lascia interdetti, senza parole e alla deriva.

Certo, siamo confrontati continuamente – teoricamente – con la minaccia di morte come strumento di lotta politica (dalla corsa agli armamenti al terrorismo, dalla ‘dissuasione’ nucleare alle guerre etniche e tribali); con la morte sociale, magari sotto forma di handicap con le sue conseguenti forme di esclusione, di pensionamento anticipato, di vita in ospizio, che è insieme un esempio di morte sociale e il suo strumento più raffinato, comunque di inutilità, di mancanza di un ruolo sociale (de-functus, si dice appunto del morto: privo di funzioni); con quella forma di morte civile che corrisponde al carcere a vita e alle istituzioni manicomiali; ma queste sono immagini della morte astratte, metaforiche.

Mentre non siamo abbastanza confrontati a quella che, con un’espressione di per sé significativa, come abbiamo visto, chiamiamo ‘morte naturale’. Non ha torto chi, dopo anni in cui lo slogan, di per sé giusto, era ‘riprendiamoci la vita’, consiglia ora anche di ‘riprenderci la morte’: di toglierla ai medici, alle infermiere, e anche ai preti, per riportarla a casa, in famiglia, nei nostri pensieri, nelle nostre discussioni, nella nostra vita, insomma.

Per insegnare qualcosa a coloro che restano, magari. Per dire un’ultima parola ‘forte’. Anche ai bambini. Ricorda Ariès che fino al XVIII secolo non esistono immagini di una stanza di agonizzante in cui non ci sia la presenza dei bambini… Mentre è probabile che il silenzio di oggi rifletta altre preoccupazioni che non il supposto bene dei bambini: Commenta Elias, in proposito: “Gli adulti che evitano di parlarne ai loro figli temono, forse a ragione, di poter comunicare loro le proprie angosce e paure della morte”.

La morte ingiusta

La diseguaglianza più grande e radicale, la più evidente delle ingiustizie, anche se è stranamente meno percepita di altre, è certamente quella relativa alle differenze nelle aspettative di vita, nella speranza di vita: la ‘mortalità differenziale’.

Una diseguaglianza che può differenziare ricchi e poveri all’interno di un paese, ma che si proietta anche su scala globale: tra paesi ricchi e paesi poveri. Inoltre può differenziare categorie sociali, sessi, etnie, ecc., secondo la situazione.

Nella Londra del 1830 per esempio, nelle élites l’età media al decesso era di 43 anni, ma di 25 tra artigiani e impiegati, e di 22 tra gli operai. A Liverpool addirittura di 35 per la nobiltà e 15 per gli operai! In misura meno netta, è vero anche qui ed ora, oggi in Italia.

Basti pensare alla contabilità, occulta e occultata, che potremmo dedurre dagli incidenti e dalle morti sul lavoro, per rendercene conto. Per non parlare degli effetti delle condizioni di vita (reddito, cibo, abitazione) sulla mortalità nelle varie classi sociali, o della disponibilità e accessibilità di cure mediche e ospedaliere e della loro diversa efficienza nelle varie aree del paese. L’Istituto Nazionale di Statistica da qualche tempo ha cominciato a produrre degli indici di mortalità per grado di istruzione, condizione professionale e caratteristiche socioeconomiche della famiglia di appartenenza. Ne risulta per esempio che il titolo di studio è un indicatore altamente predittivo della mortalità (essa è tre volte più alta tra gli analfabeti che tra i laureati), così come lo è la condizione lavorativa: in particolare la mortalità tra i disoccupati è tre volte superiore a quella dei lavoratori attivi, e la differenza è ancora più rilevante per quanto concerne i suicidi.

Tuttavia pochi si interessano a questo tipo di statistiche, e ne colgono il peso e diremmo la drammaticità in quanto indicatori e persino simboli della questione sociale.

Non è solo la morte comunque a differenziarci, con aspettative di vita diverse. Anche il ricordo del morto, spesso, ci differenzia. Anche avere un passato, una memoria, è spesso una forma di lusso, di ricchezza. Altro che “’a livella”, come diceva Totò, che ci rende tutti uguali: “nulla di più inegualitario della morte”, ha ricordato Vovelle.

La morte nascosta

La convenzione sociale vuole che non se ne parli, che non la si nomini nemmeno, che venga almeno avvolta nella cortina fumogena di irritanti metafore, che anziché dire meglio e in altro modo, semplicemente nascondono la realtà, illudendosi in questo modo di cancellarla, di negarla. Una prassi, questa della negazione – della malattia, oltre che della morte -, che è di tutta la società; e che si traduce in una preoccupazione particolarmente visibile nel linguaggio usato per cercare di non dirla, di non nominarla: dalla comunicazione giornalistica (nessuno muore mai di cancro, ma sempre ‘dopo lunga malattia’) ai tecnicismi del gergo medico-ospedaliero, fino alla ipocrita delicatezza del linguaggio quotidiano (nessuno è mai morto: al massimo, è ‘mancato’, quasi si fosse perso…) e al linguaggio pudico della pubblicità delle agenzie di pompe funebri (per le quali la morte è diventata un insapore ‘transito’ o un ‘decesso’, i parenti ‘dolenti’, la tomba una sepoltura, il funerale le esequie, la bara il feretro, il corpo ormai cadavere la salma, le spoglie o, peggio, i resti, ecc.).

E’ come se la società non volesse sapere di dover morire, si cullasse in un’illusione di eternità, per nascondersi la propria caducità, la propria mortalità (“civiltà noi adesso sappiamo che siete mortali”, dirà Paul Valéry). Come se la società non potesse funzionare se si mettesse in discussione questo assioma. Come se questo rendesse il ‘re sociale’ definitivamente nudo. Il che, forse, è più vero di quel che pensiamo.

Gli esempi di rimozione sociale si possono moltiplicare a iosa. E non si tratta solo del ‘non dire’, delle ipocrisie del linguaggio. Un’altra forma di rimozione, tipica del resto della modernità, è quella della divisione del lavoro sociale: creare delle istituzioni specializzate che se ne occupino (che si occupino di occultarla), liberando così il resto della società, a cominciare dai parenti, dall’obbligo anche solo di pensarci. Istituzioni che, sempre più spesso, in tutta Europa tendono ad essere affidate a stranieri: tali spesso sono i lavoratori dei cimiteri, ad esempio. Ed è significativo, terribilmente significativo, pensare che nelle società occidentali i nostri malati, i nostri vecchi, i nostri morti, sono affidati sempre più a personale straniero: quello che, sulla scala sociale, conta meno, e maggiormente disprezziamo (in molti sensi, incluso quello etimologico: pagandolo meno, dandogli un prezzo – cioè un valore, nella logica economica dominante – minore). Da’ l’idea del valore che diamo a questi nostri ‘scarti’ improduttivi, e al loro stesso ricordo.

Il fatto che sempre meno si muoia a casa, in famiglia, e che si passi direttamente dall’ospedale al cimitero, ci rende inoltre estranei (siamo noi gli stranieri, in questo caso) al fatto stesso della morte: l’incontro con essa non può quindi che essere casuale (per esempio un incidente). Ma di questo paghiamo anche un prezzo: la morte ‘ospedalizzata’ diventa anche morte spersonalizzata, perché l’istituzione ospedaliera “si fa carico non dell’individuo, ma del suo male” (M. de Certeau). Persino quando ce lo vuole ricordare, e ci vuole preparare, per motivi di interesse (il ramo assicurativo ne è un eccellente esempio), la società si incarica di renderci il fatto neutro e per così dire ‘dolce’, ricorrendo a espressioni che per essere pie menzogne non sono meno sintomatiche: non per caso questo tentativo di sconfiggere almeno alcune conseguenze della morte, questa forma tutta moderna di praeparatio mortis, la si chiama, significativamente, assicurazione sulla vita.

Una società vitalista e giovanilista non inciampa volentieri nei suoi morti, come del resto nei suoi vecchi. La morte, e con essa tutto ciò che può ricordarla (la vecchiaia, la malattia, il dolore) viene sempre più ‘privatizzata’ e nascosta.

Come si è detto, si muore sempre meno a casa, in mezzo alla gente, ai sani, ai ‘normali’. Il funerale lo si fa in chiesa; sparisce anche il corteo funebre nel quartiere, e si vedono sempre meno simboli esteriori (addobbi, paramenti). Anche le esistenze chiassose si spengono discretamente: con la notevole eccezione della morte dei vip, quelli che Edgar Morin chiama gli olympiens, che diventa essa stessa notizia, e rito collettivo – si pensi alla morte di Diana Spencer, meglio nota come Lady D, ma anche, quasi nello stesso periodo, di personaggi alquanto diversi e morti in circostanze del tutto dissimili, come Madre Teresa di Calcutta. O, più recentemente, alla morte di Giovanni Paolo II. La pubblicità, salvo eventi drammatici, è affidata ai soli necrologi sui giornali: l’ultimo quarto d’ora di celebrità possibile, in una società dove un evento, se non passa sui media, non esiste. L’estremo capolavoro di una società che dedica colossali energie a cercare disperatamente di non invecchiare, di allungare la vita a tutti i costi, foss’anche di un minuto, e di cancellare dunque il dolore e la morte dal panorama sociale (incluso il momento in cui la vita nasce: si pensi alle sempre più diffuse iniezioni peridurali e ai tagli cesarei allo scopo di non provare dolore al momento del parto). Non a torto, dunque, questa società è stata chiamata ‘analgesica’.

La morte ospedalizzata

“La funzione della malattia è oggi di nascondere la morte” , ha scritto uno studioso francese, di tacerla o di travestirla. Concentrato sulla malattia, su come combatterla, il medico distoglie lo sguardo dal suo esito, nel lungo termine, inevitabile, perché è l’esito di ogni vita. Dopo tutto, per il medico esso è quasi sempre vissuto come uno scacco professionale, una sconfitta: la medicina contemporanea si concepisce come una titanica battaglia, spesso vincente (ma mai nel lungo termine…), contro la morte – non riesce ad accettare, quindi, di perdere.

Un atteggiamento, questo, che ha finito per instillare nel grande pubblico e nel suo immaginario l’idea che la morte sia un’anomalia, la conseguenza di un malfunzionamento, al limite di un errore; e che ha finito per ritorcersi contro la stessa classe medica, oggi più che in passato confrontata con il moltiplicarsi di cause giudiziarie, per inadempienza, per errore diagnostico colposo o altro.

Un atteggiamento, inoltre, che non è estraneo alla frequente tendenza del medico ad essere presente e attivo nelle fasi di ‘lotta’, e ad eclissarsi nel momento in cui, come si dice, “non c’è più niente da fare”, e il malato, ormai morente, deve solo, per l’appunto, morire – lasciando la responsabilità di seguire questa fase cruciale al personale paramedico, al personale religioso, ai volontari, ai familiari, o, peggio, a nessuno.

Eppure la medicina e le sue istituzioni sono sempre più confrontate dalla morte, per la semplice ragione che prosegue la tendenza, apparentemente inesorabile, all’ospedalizzazione della morte, anche se comincia a vedersi qualche segnale di controtendenza: che tuttavia, come il parto in casa o altre forme di de-ospedalizzazione della nascita, incide per ora più a livello di costume che statistico. Ormai solo una minoranza di persone, in occidente, muore fuori dall’ospedale, in casa o altrove: specie se sa, o lo sanno i suoi parenti, che la morte sta arrivando – se, magari, la sta aspettando.

Le ragioni di questo processo sono molte: la solitudine delle persone, la scomparsa progressiva della famiglia allargata, con le sue molte risorse disponibili, ma anche delle relazioni di vicinato, specie nelle aree urbane, la mancanza di tempo degli altri familiari, coniuge incluso, che sempre più spesso lavora, il fatto che le case stesse, i troppo piccoli appartamenti metropolitani, poco si prestino ad operazioni sempre più complesse, man mano che il processo di medicalizzazione della morte, specie in presenza di patologie più difficili da affrontare, comporta: anche perché le patologie in questione si fanno sempre più difficili man mano che aumenta l’età del morente e diminuiscono le ‘risorse’ del corpo e della mente nell’affrontarla. Indubbiamente, poi, gli ospedali possono offrire supporti ‘tecnici’ e un’assistenza continuativa che non è di norma alla portata del privato, del singolo, della famiglia media. Ma c’è anche un problema culturale: l’angoscia di fronte alla morte, il non sapere che fare di fronte ad un evento cui non c’è stata preparazione. Manca la ‘dimestichezza’ con la morte, il renderla ‘domestica’, appunto, e come tale gestibile: anche per l’effetto della scomparsa progressiva della compresenza generazionale all’interno delle famiglie – non c’è più chi insegni, con le parole o con l’esempio, ciò che del resto non si ha nessuna voglia di imparare. E a superare questo problema, l’ospedalizzazione non aiuta: al contrario, lo incancrenisce. Tanto che si comincia a riflettere sul fatto che così come la medicalizzazione della nascita è stata messa in discussione, così dobbiamo mettere in discussione la medicalizzazione della morte.

Bisogna tuttavia prendere realisticamente atto che il processo è in corso, e seppure qualche timido segnale di inversione di tendenza si manifesta, è probabile che la maggioranza delle morti continuerà ad avere luogo in ospedale.

L’evento morte non è separabile in una componente razionale, di cui si può parlare e con cui ci si può confrontare, e di una irrazionale, nelle sue componenti psicologiche ma anche filosofiche e spirituali, da cui invece l’ospedale dovrebbe stare fuori: nella persona del paziente, dei suoi familiari, ma spesso anche del personale ospedaliero, queste componenti sono unite e inseparabili.

Certo, colui che è vicino alla morte è una figura atipica. E’ colui che non può (o a cui non si può) più far nulla per impedirgli di morire – è il morente, il quasi morto, il morituro. Ma la medicina ha sempre avuto, fin dalle origini, due aspetti. Il primo concerne il guarire, che implica, come si evince anche dall’etimologia della parola, il ‘difendere’, o provarci almeno, dall’aggressione della malattia. Il secondo è il curare. E curare significa precisamente prendersi cura – proprio nello stesso senso in cui il curato è colui che si prende cura, delle anime nella fattispecie: anche se separare anime e corpi è ugualmente un esito per nulla inevitabile, e concettualmente ma anche praticamente problematico, anche per la medicina. La medicina occidentale si è forse troppo orientata sul primo aspetto, il guarire, mettendo eccessivamente in ombra quando non dimenticando il secondo, il curare. Certo, se si può, bisogna guarire, cioè combattere e vincere la malattia, e ristabilire la salute. Ma non sempre è possibile, e tipicamente non è possibile per i malati che già si sanno terminali. Ma quando il malato non può essere guarito, ha ancora bisogno di essere curato, di essere aiutato a vivere la sua ultima malattia. Combattendo il dolore fisico che comporta, per esempio, quel dolore che è già in certo modo un’anticipazione della morte, che ce ne anticipa in qualche modo l’esperienza, e intorno al quale c’è spesso una sorprendente sottovalutazione, sottolineata ormai da molti studi – come se ormai non valesse quasi più la pena di approntare un trattamento analgesico adeguato. Ma il problema non si esaurisce qui: non di sola morfina…

Il problema non è più di ‘vincere’, di prolungare all’infinito una lotta senza senso: quello che si è imparato a chiamare accanimento terapeutico. E a proposito, anche qui troviamo un paradosso, l’ennesimo: “nel tentativo di prolungare la vita si prolunga involontariamente il processo del morire”. “L’escatologia è stata trionfalmente dissolta nella tecnologia”, ha notato Bauman. Ma questo trionfo apre più problemi di quanti non ne risolva; e non solo dal punto di vista etico, ma anche da quello pratico, della ‘governabilità’ e in definitiva della stessa utilità di alcune pratiche medicali. L’accanimento terapeutico produce, sì, un ulteriore tempo di vita. Ma che vita? E’ vita? E chi lo decide? Anche qui non vogliamo semplificare eccessivamente un dibattito complesso, ma alcune domande, anche radicali, è bene che comincino ad essere poste apertamente. Anche perché, in ogni caso, ci pensa l’attualità a rilanciarcele. Si pensi alla partecipazione e all’emozione con cui è stato seguito il caso Welby. Da tutti, tranne dall’istituzione-chiesa, la cui mancanza di caritas è riuscita a farsi superare dalla laica e umana pietas di molti cittadini comuni.

Allievi S. (2007), La morte oggi, in “Servitium”, III, n.171, maggio-giugno 2007, pp.33-44; issn 1123-931X