Gli anticorpi per fermare il fanatismo

Si può morire anche di satira, se si prende in giro chi ha la vocazione e il modo di pensare del tiranno. Prendere in giro i potenti è sempre pericoloso: figurarsi l’onnipotente, quando ci sono delle persone che si arrogano il diritto di prenderne il posto, come se egli non fosse che un impotente bisognoso di aiuto. Perché questo hanno fatto gli assassini di Parigi: con un peccato di orgoglio che farebbe inorridire qualsiasi autentico credente, si sono messi al posto di Dio. E gridando “Allah è grande”, dicendo di avere “vendicato il Profeta”, hanno reso Dio piccolo piccolo (niente più che una scusa al loro servizio – un servo da utilizzare, invece che un altissimo da venerare), offendendo il Profeta Muhammad assai più dei vignettisti con cui se la sono presa.
Ma la strage a Charlie Hebdo mette in causa altre questioni, non solo il fanatismo trasformatosi in terrorismo degli assalitori. La questione del terrorismo, per l’appunto. Coloro che hanno colpito a Parigi si sono autodefiniti di al-Qaeda. E’ probabile invece che non siano affiliati veri e propri di nessuna organizzazione transnazionale, ma attentatori fai da te, autoctoni: con una esperienza di combattenti in Siria, magari. Ma certamente non inviati in Francia dal sedicente califfo al-Baghdadi: semmai autoproclamatisi esecutori della sua volontà, in maniera più o meno plausibile. Il che li rende ancora più pericolosi, e un segnale che qualcosa di serio e di grave sta accadendo in alcune frange soprattutto giovanili delle comunità islamiche europee. Il terrorismo globale ha le sue logiche, seppure perverse. Le gesta eclatanti dei cani sciolti fanatizzati sono qualcosa da cui è molto più difficile difendersi. Perché non ha ragioni comprensibili. E perché è più pervasivo, meno individuabile, più diffuso.
Ma anche la questione della libertà di espressione. Una questione vera. Che si è manifestata la prima volta, in maniera eclatante, con il caso Rushdie, l’autore dei “Versi satanici”: che ha portato all’assassinio di alcuni traduttori del testo, alla minaccia agli editori, ai falò di copie del volume per le strade di alcune città europee, costringendo infine a una vita blindata, da allora, l’autore del libro. Ma poi ha conosciuto altri episodi: l’assassinio, per mano di un attentatore isolato, del regista Theo van Gogh, autore di un filmato considerato offensivo nei confronti dell’islam; la vicenda delle vignette pubblicate dal giornale Jyllands-Posten, fatta scoppiare da esponenti islamici danesi – dopo che in patria non erano riusciti a coinvolgere il governo nella condanna al giornale – in paesi musulmani che fino ad allora di quella vicenda non si erano accorti; le minacce allo stesso Charlie Hebdo, che già era finito sotto il fuoco degli oltranzisti islamici (letteralmente: nel 2011 una bomba molotov ne distrusse la redazione, dopo che pubblicò un’edizione ironicamente intitolata Charia Hebdo), oggi compiute con la strage dei suoi animatori. Per l’occidente, per l’Europa, è un valore di riferimento imprescindibile, una condizione della sua stessa esistenza come risultato storico di un processo di civilizzazione: non può essere fraintesa né negata senza lasciare spazio ai peggiori fantasmi – e dovrà diventare elemento di dibattito aperto nelle comunità islamiche europee. Nello stesso tempo, se per l’Europa è un valore universale, è anche vero che la sua violazione è individuale: e non può e non deve essere attribuita genericamente ai musulmani in quanto tali – in questo senso il montare dell’islamofobia politica e culturale finisce per diventare un regalo fatto ai terroristi, che è proprio questa logica di scontro che vogliono imporre.
Non siamo in guerra: non, almeno, in quella che crediamo. La foto più emblematica dell’attacco a Charlie Hebdo, quella in cui un terrorista spara il colpo di grazia sul poliziotto già accasciato sul marciapiede, lo mostra con grande potenza simbolica: perché sono tutti e due musulmani – il terrorista e il poliziotto (Ahmed Merabet) che ha scelto di servire il suo paese in divisa, il carnefice e la vittima (mentre un altro francese d’origine araba, un correttore di bozze del giornale, Mustapha Ourrad, è stato ucciso nell’attacco). A dimostrazione del fatto che non si tratta di un conflitto tra l’islam e l’Europa, ma tra la barbarie e la civiltà: una barbarie che proviene da alcune frange dell’islam, ma lo attraversa e colpisce anche al suo interno. Per questo, come unico segno di speranza in una giornata tragica, possiamo registrare positivamente la reazione – spontanea, immediata, diffusa, fortemente sentita – dei musulmani d’Europa: delle loro organizzazioni rappresentative, dei loro imam, ma soprattutto di migliaia di individui che sono scesi in piazza spontaneamente, a manifestare il loro cordoglio, la loro solidarietà, e la loro rabbia nel vedere la religione in cui credono strumentalizzata senza pietà da terroristi che si dicono dei loro. Una piazza che hanno occupato insieme a tanti altri europei, di diversa fede e opinione politica, uniti dal medesimo dolore e dalla medesima voglia di testimoniare un’Europa diversa, che non cade nella trappola del terrorismo. La prova che sì, qualcuno ha dichiarato guerra ad alcuni principi e valori occidentali, ma in noi – e quel noi include anche i musulmani che in Europa sono nati e vivono, e sono europei come gli altri – ci sono ancora gli anticorpi per reagire, con un metodo che non sia la guerra.
Gli anticorpi per fermare il fanatismo, in “il Piccolo”, Trieste, 9 gennaio 2015, p. 1
La reazione alla loro guerra, in “Mattino” Padova, “Nuova” Venezia, “Tribuna” Treviso, “Corriere delle Alpi”, 10 gennaio 2015, p.1