Il Veneto e l'immigrazione: quel che Zaia dovrebbe fare

Il governo regionale guidato da Luca Zaia, se vuole essere costruttivamente onesto e laicamente operativo, e lasciare un’eredità che nel suo secondo mandato ponga le basi di sviluppi di più lungo termine, sulle questioni legate all’immigrazione dovrebbe uscire dalla politica degli slogan ed entrare in quella del fare: parola che tanto piace, a parole appunto, alla politica, e certamente piace, nei fatti, all’elettorato, ma spesso viene più enunciata che praticata. L’immigrazione è un caso di scuola, da questo punto di vista: uno di quegli argomenti in cui il peso delle parole rispetto ai fatti, e delle ideologie rispetto alle politics e ancor più alle policies, è decisamente soverchiante. La campagna elettorale è finita: non c’è più da vincere sollevando problemi – occorre trovare soluzioni. Uscendo dalla logica dei provvedimenti emergenziali e di breve termine: perché si tratta di un problema strutturale e di lungo periodo, e come tale va affrontato.
Il dato di partenza è quello demografico. Il Veneto è demograficamente in caduta libera. Questa regione, come tutto il paese, e forse con qualche radicalità in più, è passata sostanzialmente in una generazione, sul piano strutturale, dalla famiglia allargata al figlio unico, e sul piano culturale, da quella tradizionale a quella postmoderna (tutto compreso: dalle famiglie di fatto a unioni omosessuali, dal divorzio breve agli scambi di coppia). Il che ci dice almeno due cose: che forse la base culturale del Veneto bianco, anche dal punto di vista religioso, non è così solida né così specifica come si ama credere; e che occorrerebbero serie politiche di sostegno alle famiglie – anche in questo caso, passando dalle parole ai fatti, dalle chiacchiere sul gender ai servizi sociali e alla defiscalizzazione. Ma c’è un’implicazione evidente anche con la questione dell’immigrazione, visto che declino demografico significa in concreto invecchiamento della popolazione, costi di previdenza crescenti in corrispondenza di contributi calanti, svuotamento progressivo delle scuole, perdita di dinamismo anche sociale e culturale. Tutte cose cui l’immigrazione può contribuire a porre rimedio.
Il Veneto è già una delle regioni con più significativa presenza di immigrati: al 2013 circa 487.000, cioè più di un decimo della popolazione straniera in Italia. Il che corrisponde più o meno al peso del Veneto sulla popolazione italiana, con una correzione al rialzo dovuta al fatto che, come tutte le regioni del nord, è tra quelle maggiormente attrattive in termini di occupazione. Gli arrivi su base annua sono tuttavia in calo rispetto agli anni precedenti. Mentre, e forse dovrebbe preoccupare di più, il saldo migratorio dei cittadini veneti è stato di meno 5.113: per lo più giovani, molti laureati, in cerca di posizioni migliori altrove (in questo è seconda tra le regioni italiane: solo la Lombardia ne perde di più). I due dati tuttavia non sono direttamente correlati: ovvero, non è che se non ci fossero gli immigrati questi giovani veneti non partirebbero perché troverebbero lavoro, trattandosi di lavori nella maggior parte dei casi diversi. Senza dimenticare che l’immigrazione ha un’incidenza più che proporzionale sul Pil regionale, di cui beneficiano gli autoctoni, e produce persino una specifica forma di occupazione.
Il livello di integrazione degli immigrati è complessivamente buono: perché il grosso del lavoro lo fa l’integrazione economica, ovvero il trovare un lavoro decentemente stabile – ché, al resto, ci pensano gli immigrati stessi. Il livello di integrazione sociale è soddisfacente: per logiche proprie, e grazie anche all’aiuto di un sostrato cattolico, fatto di associazioni e parrocchie, che molto ha fatto in questa direzione. Mentre non si può dire altrettanto dell’integrazione culturale, anche a causa dell’azione (o mancanza di azione) delle pubbliche amministrazioni, dal livello municipale fino alla regione, anche in obbedienza a parole d’ordine e disegni ideologici tanto diffusi quanto inefficienti e controdeduttivi. In sostanza, se gli immigrati si integrano, non è grazie a, ma spesso nonostante il remare contro di molte pubbliche amministrazioni: che passano il tempo a porre ostacoli all’integrazione, promuovendo politiche discriminanti sull’accesso alle case popolari o agli asili, e negando luoghi di culto per le loro confessioni religiose. Questo almeno sul lato politico, perché su quello amministrativo molti uffici e settori di intervento (dal sociale al mondo dell’istruzione) lavorano seriamente – alcuni messaggi politici però finiscono per legittimare quelli che non lo fanno, il che non appare una politica particolarmente conveniente.
Quanto allo specifico dei profughi e dei rifugiati, le cose stanno diversamente. Il Veneto accoglie ad oggi solo il 2,7% dei profughi gestiti nell’ambito dello SPRAR (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, nato da un accordo tra Ministero dell’Interno, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, e Associazione dei comuni italiani), collocandosi all’undicesimo posto tra le regioni italiane (la Sicilia ne accoglie il 21,4%, il Lazio il 20,8%), con pochissimi posti nei centri di accoglienza; mentre si è preso e si sta prendendo la sua quota proporzionale di gestione delle emergenze, che affronta con le stesse difficoltà e impreparazioni di tutti, ma forse con una dose maggiore di proteste. Non c’è dubbio tuttavia che i numeri aumenteranno, e che volente o nolente il Veneto dovrà occuparsi della questione: meglio dunque farlo da subito, preparandosi, anziché farsi trovare impreparati alla prossima emergenza. Si potrebbe quindi cominciare a ragionare sulle modalità organizzative e gestionali della suddivisione dei rifugiati più che sul loro numero, sul peso che si accollano i comuni rispetto a quello che non si accollano le istituzioni regionali, su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato fare a livello nazionale come regionale o locale: lavorando su progetti di inserimento concreti e fattibili, invece di limitarsi a ostentati quanto inutili rifiuti aprioristici. Meglio gestire il fenomeno o farsi gestire da esso? Perché è questo quello che succede, alla fine. La regione (come tutte le regioni) ha molte e sacrosante critiche e legittime proteste da avanzare nei confronti del governo centrale: che è il primo a limitarsi a spalmarli sul territorio, fornendo le risorse necessarie ma non una progettualità, un know-how amministrativo adeguato, e le modifiche legislative e di prassi amministrative oggi necessarie (tra le altre cose, occorrono competenze specializzate : di accelerazione nell’esame delle pratiche, di assistenza psicologica, di organizzazione di corsi di lingua e di pratiche di avviamento al lavoro, ecc.) che i comuni, a cui si affida la gestione della fase finale, spesso non hanno. Anche perché la legislazione è contraddittoria (impedire ai rifugiati di lavorare è assurdo – li si obbliga a vegetare senza risorse, quando potrebbero contribuire al proprio sostentamento e allo sviluppo del luogo in cui vivono) – e le procedure dell’Unione Europea derivate dagli accordi di Dublino sono superate. Ma qui andiamo sulle competenze nazionali ed europee, uscendo dalle possibilità e responsabilità regionali.
Il problema dei rom, quantitativamente minuscolo ma politicamente e culturalmente sensibile, ha invece altre sfaccettature. Innanzitutto perché in larga maggioranza, nonostante quello che si crede, non riguarda affatto immigrati, ma in grande maggioranza cittadini italiani, oltretutto per lo più stanziali, anche quando vivono in quelli che si chiamano per abitudine campi nomadi. Qui le sole politiche sensate sono quelle dell’integrazione sociale, incentivando la partecipazione a percorsi virtuosi di inserimento, e contemporaneamente disincentivando il ricorso a espedienti: con una repressione più ferma e decisa, controlli più frequenti, certezza del diritto, meccanismi ritorsivi rispetto alle politiche di sostegno sociale: come forma di giusta pressione e non di ingiusta repressione (se commetti reati, niente sussidi e aiuti – il che ha senso solo se ci sono…; se costringi i tuoi figli ad attività degradanti e li sottrai all’obbligo scolastico, niente patria potestà). Ma è su istruzione e alloggio che bisogna puntare maggiormente: anche perché demograficamente crescono più degli autoctoni, e solo puntando su neo-nati e giovani si creano processi di inclusione efficaci. Superare i campi è conveniente prima che doveroso: sono ghetti che producono segregazione, con incidenza forte sugli altri indicatori (istruzione, salute e lavoro). Ma non bastano le ruspe: se li chiudi e basta andranno ad accamparsi altrove in maniera ancora più precaria, aumentando i costi di sistema anziché diminuendoli – occorrono alternative. Una è quella di trasformare i campi in micro quartieri civili (dalla raccolta differenziata all’accompagnamento scolastico), dove la tendenza al degrado si trasformi in desiderio di cambiamento e riscatto, anche con gli opportuni incentivi e disincentivi, responsabilizzando l’utenza (e se si sgarra, nessuna comprensione, e mai più aiuti neanche indiretti: gli esempi esteri non mancano). L’altra, e migliore, è quella dell’inserimento in edilizia popolare e nel mercato ordinario: senza ingenuità, sapendo che in alcuni casi la morosità può essere alta, e i tassi di fallimento elevati. Investendo sui figli, più che sui genitori. Se è difficile immaginare che un’utenza adulta cambi abitudini, è più facile ipotizzare che un’utenza più giovane spesso non desideri altro, invece, per sfuggire alla promiscuità e al controllo sociale paternalistico-padronale dei campi, alle loro gerarchie, umilianti e soffocanti anche per molti di coloro che ci vivono, e che li abbandonerebbero volentieri, potendo. Ma per farlo occorrono investimenti: non si può pensare che una politica di integrazione sia a costo zero. Eppure, alla lunga, sarebbe un guadagno: favorendo la diminuzione dei costi sociali e delle tensioni conflittuali di domani.
Ma è forse sulla questione delle culture e delle religioni che il Veneto istituzionale ha fatto di meno, o di più ma in peggio. Ne è un esempio il caso dell’islam. Boicottando iniziative culturali e costruzione di moschee o l’installarsi di sale di preghiera (o chiudendole quando già aperte), con una evidente applicazione selettiva della normativa e dell’azione politica. Sono decenni infatti che testimoni di Geova, pentecostali, sikh, musulmani, in qualche caso anche cattolici, utilizzano capannoni industriali, depositi, negozi, come luoghi di culto, in maniera impropria, difforme dal motivo per cui sono stati costruiti (del resto lo fanno anche asili, palestre, e associazioni della più diversa natura). Per il semplice fatto che costano meno, e si trovano in zone dove recano meno disturbo (gran parte delle oltre 120 moschee del Veneto, sono in questa situazione). Ma, come noto, le polemiche ci sono solo a proposito dei musulmani. In termini di principio, quindi, la questione delle moschee nemmeno dovrebbe sussistere. Il fatto che spesso le si contesti non fa diventare diritto un torto. Si chiama discriminazione, e si può nel caso ricorrere al giudice, che non può che applicare le leggi (come già avvenuto con diversi ricorsi al Tar del Veneto, vinti dai musulmani contro ordinanze di chiusura da parte dei sindaci, da Verona a Cittadella). Non c’è petizione o referendum che tenga: perché, molto semplicemente, i diritti delle minoranze non possono essere soggetti all’arbitrio delle maggioranze. C’è poi una questione di banale convenienza. Ormai tutti, a cominciare dal ministero degli Interni, sono convinti che sia meglio che i musulmani abbiano i propri luoghi di culto, il più possibile visibili, aperti, trasparenti, alla luce del sole, in collaborazione con le forze di polizia e le istituzioni locali. Perché questo favorisce integrazione, reciproca conoscenza e controllo sociale: proprio ciò che noi tutti vorremmo e a parole auspichiamo. Le moschee, in questo senso, non sono parte del problema, ma della soluzione. Lo scopo delle polemiche invece è un altro, e il merito della questione c’entra poco. Il fatto è che protestare contro di esse, con poca spesa, offre visibilità e canalizza consenso: e qualcuno che ci guadagna, da questi conflitti, c’è sempre. E forse è ora che la politica, guardando più lontano, all’orizzonte delle generazioni anziché a quello delle prossime elezioni, la smetta di prestarsi a questo gioco: costruendo le basi di un Veneto migliore domani, per tutti. Nell’interesse degli autoctoni prima ancora che degli immigrati (categorie peraltro soggette a trasformazioni, anche grazie al crescere della conoscenza reciproca, alle forme di mixité, a cominciare da quella matrimoniale, e al cambiamento della situazione, che implica acquisizione di cittadinanze e l’arrivo, ormai, delle terze generazioni): e quindi nell’interesse di tutti.
Veneto e immigrazione. E’ il tempo delle policies, in “Veneziepost”, Editoriale, 1 luglio 2015