Le parole del Nordest: esperienza

Esperienza. Cominciamo dalla definizione di un celebre dizionario etimologico: “conoscenza e pratica delle cose acquistata per prove fattene da noi stessi o per averle vedute fare da altri; conoscenza del mondo, della vita”.
Non è lo studio astratto. Ed è in fondo il contrario del cogito ergo sum cartesiano. Esperienza è sapere perché si è toccato con mano (o con la bocca, come fanno i bambini, sentendone il sapore: da sàpere, che è tutt’altra cosa dal sapere come lo intendiamo oggi). E’ un qualcosa che ci parla di coinvolgimento (entrare dentro davvero, in profondità). Che ha dunque un rapporto con tutte le dimensioni dell’essere, non solo con quella razionale: con le emozioni, con le sensazioni.
Ne sentiamo la mancanza, ne abbiamo nostalgia. Non a caso: ce ne siamo progressivamente allontanati. Un po’ innaturalmente, perché in realtà lo sappiamo – ad esempio nel nostro ruolo di genitori, di educatori – che per crescere bisogna soprattutto fare esperienza delle cose, non solo saperle in astratto (anche se la scuola continua a fare tutt’altro, sempre per colpa di Cartesio…). Non a caso quella esperienziale è anche la nuova dimensione del marketing e del branding più avanzato: non solo le pubblicità, ma i negozi di marca e gli eventi sempre più diffusi, ci invitano a fare un’esperienza emotiva, sensoriale, prima ancora che di convincimento razionale. Argomenti come “costa di meno” o “lava più bianco” sono sempre meno efficaci: che si tratti di un biscotto o di un detersivo, è il coinvolgimento, l’immedesimazione, che conta. A maggior ragione se si tratta di un momento di vacanza, di relax: dove sempre più spesso siamo invitati a (e abbiamo voglia di) partecipare, non solo guardare; e fare – quasi sempre insieme ad altri, in gruppo, perché la dimensione relazionale è parte fondamentale dell’esperienza – non solo consumare passivamente. Ma vale un po’ per tutto: un buon piatto (che sempre più deve essere anche bello, ben presentato e ben raccontato, inserito nel giusto contesto, oltre che saporito), una bottiglia di vino, un accessorio d’abbigliamento. Del resto, l’esperienza multisensoriale è ciò che ancora differenzia il libro dall’e-book, il concerto dal vivo rispetto all’ascolto di una traccia digitale, e il gioco dal videogioco: che non a caso, se davvero è coinvolgente, diciamo che sembra vero, realistico.
Questo bisogno di esperienze più ‘vive’ ha probabilmente a che fare con il fatto che è sempre più difficile, se ci si limita ad apprendere razionalmente o ad osservare, avere l’occasione di provare meraviglia, stupore, o un’altra di quelle coinvolgenti sensazioni di cui sentiamo fortemente la mancanza. Prendiamo il turismo: vedere le piramidi, le cascate di Iguazu o la Tour Eiffel, ma anche San Marco o le Dolomiti, è diventata un’esperienza deludente – per il semplice fatto che, quando ci arriviamo, ci accorgiamo di conoscerle già, di averle viste già un milione di volte, da tutte le angolature. Si scatta la milionesima fotografia, ma senza alcuna vera gioia. E molti sentono dunque il bisogno di fare altro, non solo di vedere altro: di andare in profondità, anziché restare in superficie.
E’ un qualcosa che ha molto a che fare con la relazione con persone vere, e con la narrazione: la capacità di raccontarci la storia di un luogo, di una persona, di un prodotto. Quello che oggi si chiama storytelling: e che non è che l’attività più antica del mondo – parlare, raccontare, creare storie e storia, appunto. Che nelle culture dette primitive è precisamente quello che fanno due persone sconosciute che si incontrano: informarsi l’uno dell’altro, per capire se è possibile costruire una relazione di fiducia. Relazionarsi, raccontare e raccontarsi, esperire quindi, è ciò che fa delle cose e dei luoghi, oltre che delle persone, un valore: un qualcosa che stiamo tardivamente riscoprendo, abituati come siamo a dare un valore solo a ciò che ha un prezzo. Una conoscenza superficiale, basata solo sull’osservazione distante, tende a dare risposte: dall’esperienza – dalla relazione, dalla narrazione, dall’incontro – maturano invece nuove domande, che è cosa ben più importante, nel processo conoscitivo. Ecco perché ci pare ed è assai più intensa e coinvolgente. E perché funziona anche nel settore del consumo e del turismo. Perché produce e-mozioni: che fanno muovere, appunto – uscire da sé e dal proprio mondo per entrare in un mondo più grande e più intenso, di cui può valer la pena innamorarsi, quando è il caso. Solo che per vendere un prodotto così bisogna possederlo, capirne la ricchezza. La domanda è in crescita; l’offerta saprà adeguarsi ad essa?
Se abbiamo nostalgia di stupore e meraviglia, in “Corriere della sera – Corriere Imprese Nordest”, 8 agosto 2016, p.3 – rubrica “Le parole del Nordest”