Passate le elezioni, scomparse le migrazioni: ecco perché…

L’avete notato anche voi? Fino al giorno delle elezioni le discussioni politiche, e le pagine dei giornali, erano occupate ossessivamente dai problemi collegati all’immigrazione. I partiti – i partiti che hanno vinto in particolare – erano una fonte continua di dichiarazioni roboanti, slogan aggressivi, soluzioni definitive o spacciate come tali. E i leader non si risparmiavano prese di posizione forti e denunce radicali. Dal giorno delle elezioni, invece, più nulla. Le priorità sono tutt’altre, gli interessi dei leader anche, i problemi di cui si parla pure. L’immigrazione è scomparsa dai radar della politica e dall’orizzonte mediatico, nonostante le notizie, anche di rilievo, non manchino (le stesse che, prima delle elezioni, avrebbero avuto ben altro risalto: i tweet dei politici, le prime pagine dei giornali, intere trasmissioni in prima serata, i commenti sui social). Eppure proprio questo argomento è stato decisivo nello spostare una grande massa di voti. Come mai non se ne parla più?
In realtà no, non l’avevate notato. Non è facile accorgersi di essere manipolati, e non è piacevole ammetterlo. Ma il fatto che sia successo è la prova provata che il pensiero del centro-destra ha vinto culturalmente. E quello che all’ingrosso possiamo chiamare progressista (ma anche il solidarismo cattolico) ha perso. E la prova non sta nelle soluzioni proposte e che trovano consenso. Ma precisamente nel fatto che l’interesse sta nel sollevare il problema, non nel trovare soluzioni. Perché quello che succede, in realtà, è che chi maggiormente è riuscito a canalizzare le frustrazioni e le proteste, anche fondate, dell’elettorato rispetto alla gestione del fenomeno migratorio, ha interesse a che il problema persista, perché precisamente da quello ricava il consenso elettorale: se i problemi si risolvessero, perderebbero una comoda e facile rendita di posizione. Meglio una dichiarazione altisonante spesso, e un atto simbolico di repressione ogni tanto (tanto il capro espiatorio prescelto non vota), anche se serve solo a far parlare di sé e non risolve nulla, che delle soluzioni pragmatiche trovate in silenzio, cercando di riformare i meccanismi che portano alle migrazioni così come avvengono oggi.
Me ne sto accorgendo, in maniera assolutamente evidente, portando in giro lo spettacolo che ho tratto dal mio libro “Immigrazione. Cambiare tutto”. E nei dibattiti che faccio, a seguire, con chi viene ad assistere. Persone spesso piene più di dubbi che di certezze, o con certezze una volta solide e oggi incrinate dalla sensazione – che è un dato di fatto – di essere divenuti minoranza culturale. Era lo scopo con cui ho scritto il libro, del resto: fare miei i dubbi, le paure, le insicurezze, le polemiche, cercando di introiettarli prima, e di trovare qualche risposta percorribile, poi.
Quello che emerge, con impressionante evidenza, è che, ormai da anni – ma in questa campagna elettorale con un salto qualitativo e quantitativo assai significativo – l’egemonia culturale è di chi non vuole nemmeno occuparsi del problema, o lo vuole fare (o dice di volerlo fare, ma poi non lo fa, perché non è così semplice come dirlo) per le spicce, con soluzioni grossolane e prese di posizione verbalmente dure, tanto facili da evocare sotto forma di slogan quanto difficili da praticare sotto forma di politiche. Sono costoro che marciano compatti all’attacco. Mentre è la cultura di chi cerca di risolvere i problemi, con meno violenza verbale e più comprensione delle molte variabili in gioco, che è sulla difensiva, e dunque perdente.
Gli araldi delle soluzioni facili dovrebbero essere messi alla prova della gestione reale dei problemi. Ma non accadrà, perché non mobilitano competenze, e perché, come detto, guadagnano consenso dal fatto che il problema esista, e si possa darne la colpa a qualcun altro, non dal fatto che sia risolto. Gli altri dovrebbero essere confrontati più spesso con le contraddizioni dei fenomeni e le insicurezze che generano: ma tendono a evitarlo, perché temono che tolga loro quel poco di consenso rimasto; e in fondo anche per loro è comodo accusare semplicemente gli altri di xenofobia o di razzismo – anche questo un capro espiatorio, dopo tutto. E così, in questa doppia spirale, si perde il senso della realtà, e restano solo gli slogan. Che però, dopo le elezioni, non servono più. Si spiega così il silenzio improvviso calato sul tema. Fino alla vigilia della prossima tornata elettorale. Che non è lontana. E che si giocherà ancora sugli stessi temi. Senza che un solo problema sia stato risolto.
Voto e immigrati. Il consenso a chi non risolve, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 18 marzo 2018, editoriale, p. 1