Il confine, nozione ambigua: ciò che unisce e ciò che separa

Trieste, città di confine. Ma il confine è nozione ambigua: cum-finis, la fine che è (che ho) in comune con l’altro. Luogo quindi non solo di separatezza, ma anche di attraversamenti: legali, e talvolta clandestini, anche se quasi sempre tollerati. Una ambiguità conosciuta come tale e accettata. Un po’ come nella persona e nel mestiere del contrabbandiere, figura archetipica e quasi mitologica delle lande di confine. Fuorilegge, certo, ma non veramente bandito, perché dopo tutto svolge un’utile funzione: economicamente funzionale, e certamente più interessante e in fondo benvoluta delle guardie di frontiera che con lui – contro di lui – giocano a rimpiattino un necessario e al contempo puramente rituale gioco di ruolo.
Il confine è questo. Separa formalmente le identità, e unisce paradossalmente le persone: che, spesso, al di qua e al di là del confine, sono tra loro più simili di quanto siano le terre e le genti di confine rispetto ai loro rispettivi centri, alle capitali del paese cui appartengono, ad esempio. Che si tratti di genti di montagna separate da una barriera fisicamente incombente in tutta la sua materialità (ma vale anche per le genti di mare e gli isolani, assai meno isolati di quel che si crede, e in rapporto con altre coste e altre isole), o di genti di città separate solo da barriere artificiali come sono i mutevoli confini degli stati. Mutevoli, ma cogenti, come sappiamo. E tuttavia scopriamo che spesso svolgono funzioni apparentemente controdeduttive rispetto a quelle per cui sono stati creati: i confini, nati per separare, finiscono spesso per unire, così come il ghetto, inventato per separare e indebolire, ha finito per rafforzare e valorizzare l’identità culturale di chi ci viveva, consentendole di trasmettersi più efficacemente nel tempo.
L’ambiguità del confine, e anche la sua profonda tragicità, è dovuta innanzitutto alla sua artificiosità, alla sua convenzionalità: non a caso i confini si spostano continuamente, nella storia, e nessuno può dire quali siano quelli veri. Noi oggi, nella globalizzazione, viviamo sotto il segno di Hermes, Mercurio per i latini, il dio alato del movimento, degli attraversamenti e degli incroci, e forse non ne cogliamo più l’importanza. Ma il loro insegnamento resta: ed è quello dell’incontro, ma anche quello della moltiplicazione e della sovrapposizione delle identità, nel tentativo non sempre riuscito ma sempre presente di costruire una nuova sintesi, frutto dell’incontro e non della separatezza. Come nella figura dello scrittore triestino Aron Hector Schmitz, ebreo di padre tedesco e madre italiana, diventato poi Ettore Schmitz, poi ancora Ettore Samigli, e infine noto come Italo Svevo – che fin dal nome ha scelto di voler unire anziché separare: mostrando al contempo che le identità non sono date e, in certa misura, possono essere scelte. Ciò che precisamente rende difficile, complesso, e al contempo affascinante, cercare di capire le identità delle città di confine.
In questo senso la storia delle città di confine, che della separazione hanno pagato le lacerazioni e il prezzo, può essere un utile insegnamento per l’oggi, rinnovando continuamente – e mettendo in questione – la domanda su cosa sono le identità, troppo spesso date per scontate, come se fossero davvero autoevidenti: mentre non lo sono, mai, o quanto meno vanno continuamente ripensate, ridomandate, anche alla luce degli incontri e degli scontri – spesso entrambi fecondi – con l’altro e le sue alterità.
L’ambiguità del confine: le identità si moltiplicano, tra incontro e separatezza, in “Corriere della sera – Corriere imprese Nordest”, p. 8, rubrica ‘Le parole del Nordest’