Di imam, di conflitti culturali e d'altro ancora


Due giovani imam del Bangladesh, attivi presso un Centro islamico di Padova, sono uno agli arresti e l’altro già espulso a seguito dei maltrattamenti inferti a bambini durante la scuola coranica pomeridiana.
Il conflitto culturale è evidente, anche se giocano un ruolo importante fattori come il livello di istruzione e la classe sociale. I due giovani imam usavano metodi “educativi” basati sulla repressione, la punizione fisica dell’errore, il terrore psicologico, la violenza: diffusi e considerati normali nei paesi – nei villaggi – d’origine. Le comunità immigrate che importano questi imam di fatto chiedono loro di riprodurre il mondo da cui sono partiti. E’ come se servissero per ribadire ai genitori immigrati: “non è cambiato niente, è tutto come prima”. Solo che è cambiato tutto: il paese in cui vivono, il contesto con cui devono relazionarsi i propri figli, la cultura dominante, i valori di riferimento, i progetti futuri (molti genitori si immaginano di tornare dopo qualche anno nel paese d’origine – sono quindi poco interessati a lingua e cultura del paese in cui vivono – ma nella maggior parte dei casi resteranno). Da qui l’importanza di formare in Italia i leader religiosi delle comunità immigrate: come accade in molti paesi europei e anche in un progetto pilota attivo da alcuni anni presso l’università di Padova. Da qui anche il significato educativo di questi conflitti. Il doveroso intervento repressivo delle autorità italiane costringe a un ripensamento, a una presa in carico delle proprie responsabilità: anche di coloro che non condividono questi metodi, non li avrebbero accettati se ne fossero stati a conoscenza, ma, per un istinto di chiusura e di protezione intracomunitaria, al limite dell’omertà, non sono stati capaci di leggere i segnali che arrivavano dai bambini, o li hanno sottovalutati.
Proprio dai bambini arriva peraltro la lezione più importante: loro sì sono capaci di leggere, con i loro mezzi, il conflitto tra culture, e l’ingiustizia della loro situazione. La loro reazione è una bella storia di integrazione: parlano di ribellarsi, di chiamare la polizia, si fidano delle maestre e del contesto scolastico – sono, cioè, fiduciosi nella capacità della società di sconfiggere l’ingiustizia e di proteggerli. Anche a costo di mettere le istituzioni in conflitto con i loro stessi genitori. Qui vediamo bene i processi di integrazione in atto, la loro forza, e pure la loro efficacia, attraverso gli utili conflitti intergenerazionali che si producono.
La riflessione finale riguarda noi, gli italiani: il contesto, appunto. L’epilogo della vicenda ci rende legittimamente orgogliosi delle nostre istituzioni – dalla scuola alla Digos – che hanno svolto il proprio ruolo di tutela con efficacia. Vedere i buoni che salvano i bambini dall’orco cattivo è sempre una bellissima cosa, e una morale tranquillizzante per concludere le fiabe, incluse quelle sociali. Bene. Casi di violenze di maestre italiane su bambini italiani, in alcune scuole materne, anche religiose, ne abbiamo purtroppo avuti, occasionalmente, in varie parti della penisola: tuttavia sappiamo che non è la norma ma l’eccezione. Non ci verrebbe in mente di incolpare la cultura o la religione di appartenenza in quanto tale: forse vale la pena rifletterci anche quando parliamo di altri. Infine: uno dei due imam di Padova è stato espulso in quanto socialmente pericoloso dopo aver postato su Facebook una foto di Hitler, evidenziando una escalation estremistica dal potenziale antisemita. Se questo è un criterio – e ci sembra ragionevole prenderlo in considerazione – forse una riflessione va fatta anche dalle nostre parti. Migliaia di italiani fanno purtroppo la stessa cosa: se – legittimamente – pensiamo sia una forma di pericolosità sociale, quali azioni vogliamo intraprendere?
Formare gli imam in Italia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 novembre 2019, editoriale, p.1