Venetismo di bandiera

Non c’è dubbio che abbia ragione il Presidente della regione e abbia torto il Questore: il leone di San Marco non è un simbolo eversivo, ma istituzionale. Per la semplice ragione che una legge del 1975, modificata nel 1999 (togliendo la scritta Regione Veneto) ha voluto che lo fosse. E’ un fatto di legge, che come tale va rispettato: suona strano che un tutore della legge ne impedisca l’accesso in uno stadio (e ovunque). E forse, al di là della costituzionalità della norma, potrebbe essere ragionevole lasciar decidere alla regione di esporla quando e dove vuole, accanto alla bandiera italiana e magari a quella europea, visto che un cittadino veneto è parte di tutte e tre queste entità. In più, è ovvio, il gonfalone di San Marco, l’antica bandiera della Serenissima Repubblica di Venezia (ancorché opportunamente modificata per sostituire i sei sestieri di Venezia con le sette province del Veneto, a dimostrazione del fatto che i simboli hanno sempre un che di vagamente imperialistico, anche inintenzionalmente), ha una storia lunga e un peso simbolico significativo. E oggi identifica la regione, piaccia o non piaccia. E’ parte della sua strategia di branding, ed è perfino un souvenir locale. Per quel che vale, saremmo d’accordo sulla sua presenza e diffusione, e dunque esposizione, dove si vuole. Per semplice buon senso.
Eppure non riusciamo a non provare fastidio per questa ennesima disfida sui simboli, dall’aria vagamente provinciale, strapaesana: il buon politico, dalle intenzioni innocenti e senza macchia (ma davvero?) e lo sbirro cattivo, il Questore orco rappresentante del potere centralista (ma davvero?): la buona Cappuccetto Rosso e il Lupo cattivo, il gentile Robin Hood e l’odiato sceriffo di Nottingham. Ma davvero crediamo ancora nelle favole? Sappiamo tutti tutto, ed è inutile recitare la parte delle verginelle, da una parte e dall’altra: i leghisti vogliono esporlo anche perché è stato a lungo un (loro) simbolo politico preciso, separatista nelle intenzioni; gli antileghisti non vogliono esporlo per lo stesso motivo. E a nessuno – tra gli attori politici della singolar tenzone – frega nulla dei princìpi.
Forse è il caso di cominciare a dirsi, allora, delle verità spiacevoli. A cominciare da quella che un regionalismo non è altro che un nazionalismo in sedicesimo (così come un potere sovranazionale è un nazionalismo al quadrato). Con gli stessi difetti di tutti i nazionalismi: la propensione a farci parlare d’altro, rispetto a quelli che sono i problemi concreti; e l’utilissima funzione (per chi li usa) di essere uno strumento per creare elite politiche che usano i simboli come strumento di autopromozione (cioè di carriera) e in funzione sostitutiva: della loro capacità di fare qualcosa. E tutte le volte che si usano le maiuscole, per dire Popolo o per dire Nazione (o magari Nathion: non è che cambi qualcosa), si finisce in una retorica patriottarda dal sapore vagamente guerrafondaio (la ricerca di un nemico ne è la caratteristica principale) e con un retrogusto di rischi inquietanti, che più che risolvere problemi ne crea.
Del resto, che sia un mero strumento, lo mostra la Lega stessa: passata dalla secessione all’autonomia e al federalismo, per finire nel sovranismo nazionalista (e, per dire, in politica estera, dal sostegno ai catalani – con la loro bandiera portata in consiglio regionale – al sostegno agli ultranazionalisti nostalgici franchisti antiautonomisti di Vox). La logica è sempre quella: il simbolo migliore è quello più comodo in un dato momento politico. E chissenefrega della coerenza o dei princìpi, dell’identità o dell’anima (veneta, nel caso: ammesso e non concesso che qualcuno sappia veramente cos’è).
Chi scrive è stato favorevole all’autonomia in tempi non sospetti: lo testimonia un libro sulla Lega (“Le parole della Lega”, pubblicato da Garzanti) scritto nei primissimi anni ’90, quando ancora la Lega era lungi dai suoi fasti attuali. Ma, come molti, pensiamo all’autonomia come strumento per governare meglio. In un’accezione pragmatica, non simbolica; razionalistica, non nazionalistica; ideale, forse, non ideologica. Non l’autonomia di per sé e a tutti costi, dunque, ma l’autonomia se (e solo se) sa fare meglio di altre forme di governo. Ecco perché forse è giunto il momento di dire che è insopportabile un’autonomia che serve solo a sostenere un’elite politica che di elitario ha poco o niente: in gran parte incompetente, incapace, parolaia. Capace di dirla, l’autonomia, ma non necessariamente di farla. E lo stesso viene facile da dire per chi all’autonomia si oppone, solo per opporsi ad un avversario politico.
L’autonomia serve se serve a fare qualcosa: deve avere un progetto, e un personale politico capace e competente, in grado di perseguirlo. Come bandiera non porta da nessuna parte: se non all’autoperpetuazione di un ceto politico. Ma in questo caso, uno vale l’altro, perché tutti valgono assai poco.
La disfida della bandiera, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 16 novembre 2019, editoriale, p. 1